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lunedì 4 aprile 2011

L'ITALIA E LE TORTUOSE STRADE DELL'ENERGIA: DA MATTEI ALLA SECONDA REPUBBLICA


Il Professor Claudio Moffa è sicuramente uno dei più importanti studiosi della figura storica di Enrico Mattei. Professore ordinario di Storia e Istituzioni dei Paesi dell'Africa e dell'Asia, presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Teramo, Claudio Moffa vanta un curriculm personale di primo piano nel panorama della ricerca e della pubblicistica relativa alle problematiche politologiche ed etno-storiche dell'Africa. Oltre alle innumerevoli collaborazioni editoriali lungo tutta la sua formazione personale (Corriere della Sera, Paese Sera, Panorama, Gr-News, Eurasia ecc…), Claudio Moffa può a pieno titolo considerarsi uno dei maggiori studiosi della storia dell'ENI e di Enrico Mattei in particolare, da egli considerato come la più grande figura dell'Italia post-bellica, tanto da dedicare alla carismatica personalità dell'industriale italiano ben due seminari universitari, “Enrico Mattei, il coraggio e la storia” nel 2006, e “La straordinaria vicenda Mattei, fra oblio e occultamento” nel 2008, quali risultanti di faticose ricerche all'interno dello storico archivio aziendale di Pomezia.


Grazie per la disponibilità e benvenuto, Professore. Giorgio Bocca scrisse: “ Che cosa era Enrico Mattei? Un avventuriero? Un grande patriota? Uno di quegli italiani imprendibili, indefinibili, che sanno entrare in tutte le parti, capaci di grandissimo charme come di grandissimo furore, generosi ma con una memoria di elefante per le offese subite, abili nell'usare il denaro ma quasi senza toccarlo, sopra le parti ma capaci di usarle, cinici ma per un grande disegno “. Ma chi fu veramente Enrico Mattei e perché la sua vicenda personale segna così indelebilmente la storia della nostra Italia?

Bocca dice cose sostanzialmente in sé giuste, ma mettendole tutte sullo stesso piano dentro uno schemino sulla presunta “indefinibilità” di Enrico Mattei, nei fatti lo sminuisce e lo riduce a uno dei tanti politici politicanti italiani del dopoguerra. Non è certo così: Mattei fu uno dei più grandi politici e manager dell'Italia repubblicana, che aveva un ben definito progetto politico, economico e sociale per la neonata Repubblica: primo, sviluppare il nostro paese, farlo uscire dalle condizioni di arretratezza e miseria in cui versava non solo per gli effetti della guerra, ma anche per ataviche arretratezze, per scarsità di fonti energetiche, e per il carattere prevalentemente agricolo dell'Italia postbellica; secondo, sviluppare una politica di amicizia con il mondo arabo, e non solo per permettere adeguati rifornimenti energetici all'Italia ma anche per consonanze di tipo culturale e strategico, secondo una tradizione democristiana che Mattei stesso, assieme a Gronchi, La Pira, Fanfani e il giovane Moro, contribuì ad avviare. È la linea euro-mediterranea e “pro-araba” che ha avuto il suo apice diciamo così mediatico-politico nella crisi di Sigonella del 1985 – quando Craxi e Andreotti impedirono agli USA di sequestrare i palestinesi del co mmando dell' Achille Lauro nella base siciliana – ma di cui Mattei in sintonia con la sinistra DC degli anni Cinquanta gettò le basi profonde, costantemente contrastate dall'euro-atlantismo ortodosso, nonché decisamente pro-israeliano. Insomma, Mattei fu un politico rigoroso, rigorosissimo, e poiché era determinato a perseguire la sua strategia usò anche mezzi “decisionisti”, compresi i fondi neri per finanziare i partiti. Ma rovesciare l'ordine delle cose è un'operazione errata se non disonesta. Il nostro paese deve moltissimo a Mattei: in politica interna, egli favorì, se non determinò, il boom economico degli anni Sessanta grazie alla metanizzazione dell'industria, una rete di condutture del gas scoperto nella Pianura Padana che a poco a poco coprì gran parte del territorio nazionale; il metano delle bombole servì anche a liberare la popolazione contadina e dei piccoli centri da certe gravose servitù domestiche, come la raccolta della legna per il riscaldamento e per cucinare. Sul piano strutturale, Mattei difese e potenziò il settore statale dell'economia, impedendo prima (sicuramente non da solo ma con l'avallo di una parte della DC) lo smantellamento dell'AGIP istituita in epoca fascista, e poi fondando l'ENI nel 1952. Un colosso dell'economia italiana ancora oggi. Per finire, sul piano internazionale Mattei inventò la famosa “formula ENI” come strumento di cooperazione: non più cioè un ruolo passivo dei paesi produttori, come destinatari di royalties , e cioè percentuali sull'attività di estrazione gestita in esclusiva dalla compagnia petrolifera occidentale, ma una loro attivazione attraverso compagnie miste frutto della compartecipazione del paese produttore e del paese cooperante, l'Italia. In tal modo Mattei ottenne due effetti: da una parte favorì il processo di decolonizzazione economica dei paesi allora definiti “in via di sviluppo”, e dall'altra riuscì a guadagnare per il nostro paese degli spazi di intervento in Medio Oriente impensabili se l'ENI avesse adottato gli schemi delle grandi compagnie petrolifere anglo-americane. L'Eni era un piccolo gatti no, le Sette Sorelle erano i mastini del famoso aneddoto raccontato in TV dal Presidente dell'ENI. Mattei agì in perfetta sintonia con la decolonizzazione politica – che aveva messo o stava mettendo fine ai grandi impe ri coloniali – ed eco nomica, facendo rivivere nella strategia dell'ENI il messaggio della Resist enza partigiana a cui aveva aderito. Personaggio complesso, ma per nulla “indefinito” e “avventuriero”: per le sue idee e per la sua azione rivoluzionaria Mattei morì a Bascapé il 27 ottobre 1962, in quello che ormai tutti riconoscono essere stato un attentato.


Ma se Mattei fu così grande, perché allora il giudizio di Bocca, che fu giornalista de Il Giorno e lo conobbe?

Non vorrei offendere, ma credo che l'attributo “indefinito” o “avventuriero” si attagli più a Bocca e agli altri collaboratori di Mattei finiti a Repubblica – come Pirani ad esempio – che non a Mattei stesso. Ogni tanto si tira fuori la storia del Bocca ex fascista collaboratore della rivista La difesa della Razza . Anche Mattei fu fascista, sia pure in gioventù, eppure paradossalmente qualcosa del fascismo potrebbe essere rimasto in lui nello spirito patriottico che pervade la sua azione. Non un patriottismo retorico, bellicista e colonialista, e meno che mai razzista, ma esattamente il contrario. Eppure tale, in un'epoca in cui il concetto di patria era soggetto a critiche dure ed era a rischio nel cosiddetto arco democratico. Ma tornando a Bocca e a Pirani, voglio dire semplicemente questo: che il progetto ENI di Mattei, e il progetto giornalistico de Il Giorno, cui parteciparono Pirani e Bocca, sono esattamente l'opposto del progetto Repubblica a cui entrambi si sono legati a partire dal gennaio 1976. Il Giorno era il portavoce, per così dire, di una visione del mondo e di una operatività a modello misto in politica interna, e pro-araba in quella estera. Mattei, per questa via – una via che sfociò in un sostegno determinato alla guerriglia algerina e a Nasser, l' “Hitler” del mondo arabo secondo Israele degli anni Cinquanta e Sessanta – finì per scontrarsi appunto con gli interessi strategici del sionismo.

Repubblica marcia fin dagli inizi in direzione esattamente opposta: gli inventori di questo giornale imitarono il modello innovativo de Il Giorno di vent'anni prima – un quotidiano vivace, che dava molto spazio alle inchieste giornalistiche, rivoluzionario anche nella grafica – ma lo riempirono di contenuti contrari: la sionistizzazione della sinistra italiana e in generale della politica italiana, con professionisti che venivano inizialmente spesso dalla stampa comunista o filo-comunista. Anche la funzione cambiava: Il Giorno servì a Mattei per difendersi, per quanto possibile, dalla velenosa campagna di stampa dei poteri forti con cui si stava scontrando – tutti gli articoli dei ben 33 volumi di Stampa e Oro nero – attacchi che lo accusavano di tutto, compreso, come da articolo del New York Times , di essere lui l' Oil Emperor mondiale, l'imperatore del petrolio. Uno strumento di difesa. Repubblica è stato uno strumento di aggressione e di campagne scandalistiche volto fin da subito alla distruzione di quel sistema partitico post-bellico di cui Mattei era stato uno dei fondatori e protagonisti. Di più, sono radicalmente diverse le ideologie e la visione dell'economia: Mattei è un manager sviluppista, che ha al centro dei suoi progetti la produzione di beni materiali, ed è dunque convinto assertore di un capitalismo non solo a forte presenza statale, ma anche ancorato, appunto, alla sua base produttiva, a vantaggio della crescita del benessere generale del popolo italiano, ed a nche di singoli settori della classe operaia, come nel caso del salvataggio del Nuovo Pignone di Pisa chiestogli da La Pira. Questa filosofia costituiva il retroterra ultimo dell'azione di Mattei come mecenate – la schiera di intellettuali anche di sinistra raccolti attorno al Gatto Selvatico – ed editore de Il Giorno . Tutt'altra cosa è Repubblica : i “traditori” di Mattei, che tacciono su alcune pagine oscure degli ultimi mesi di vita del presidente dell'ENI, riguardanti essenzialmente la vicenda dell'espulsione di Cefis nel gennaio 1962, hanno sposato a partire dal gennaio 1976 un progetto opposto: un progetto neo-liberista, come da privatizzazioni degli anni Novanta, del “centro-sinistra finanziario”, un progetto appunto legato al mondo dell'alta finanza, antiproduttiva perché organicamente speculativa e fondata sulla filosofia usuraria del denaro che cresce attraverso il denaro. È il modello di De Benedetti, editore di Repubblica , che alla metà degli anni Novanta licenzia in tronco 3 o 4000 operai dell'Olivetti, una azienda fondata da un grande imprenditore di origini ebraiche peraltro in buoni rapporti con Mattei, cosicché il gruzzolo raccolto finisce nella rete finanziaria internazionale a far soldi attraverso i soldi. Mattei è contro questo mondo, contro questo tipo di capitalismo speculativo che oggi, come ha ricordato Tremonti recentemente ad Annozero, è stra-egemone, 20 a 1 rispetto al capitalismo produttivo e sta causando disastri in ogni angolo del pianeta. Giancarlo Galli racconta, in uno dei suoi libri, della cena di Mattei con alcuni suoi collaboratori fra cui l'allora direttore de Il Giorno , Baldacci. Si parla, a un certo punto, di Enrico Cuccia: Mattei dice che era “molto bravo” ma avverte anche che si sarebbero dovuti “fare i conti” con lui, e che se avesse vinto avrebbe “distrutto” il loro lavoro (dell'ENI e dei suoi collaboratori). Baldacci, come molti intellettuali e giornalisti oggi, soprattutto quelli di “sinistra”, non capì e disse che Cuccia era loro amico perché uomo del grande banchiere massone Mattioli, a sua volta “amico” del Presidente dell'ENI. Ma Mattei scosse la testa, racconta ancora Galli, e rimase irritato per l'idiozia del Baldacci. Un aneddoto che nasconde una verità, una verità che è nascosta o semi-nascosta quando si parla del “caso Mattei”.


La sua strategia di cooperazione energetica con l'Unione Sovietica e con alcuni Paesi del Medio Oriente, apriva di fatto ad una nuova dottrina geopolitica “parallela” che contrastava con la collocazione strategica dell'Italia degli Anni Cinquanta e Sessanta, sconfitta in guerra e relegata alla periferia dell'Occidente, ma ancora sotto osservazione per la presenza del più importante Partito Comunista dell'area euro-atlantica. Qual'é stato l'impatto di questa novità sullo scenario politico internazionale di allora?

L'impatto fu in parte forte, perché comunque la cooperazione con l'Unione Sovietica sfidava il tabù dello scontro frontale tra Comunismo e Capitalismo negli anni Cinquanta e Sessanta, ma rientrò anche in un processo distensivo Est-Ovest più diffuso. L'accordo con l'URSS è del 1960, il mondo stava cambiando, nel 1958 Roncalli era diventato Papa col nome di Giovanni XXIII, e a Washington qualche mese dopo l'accordo ENI-URSS sarebbe arrivato Kennedy. In questo clima, non solo l'ENI e l'Italia, ma anche altri paesi euro-occidentali intrattenevano rapporti commerciali con l'Unione Sovietica. È interessante notare che Mattei si lamentava proprio di questo, del fatto che lui e la sua azienda erano più di ogni altro paese o compagnia europea sotto attacco per le relazioni intessute con Mosca, e questo nonostante ufficialmente l'ENI e il suo presidente presentassero gli accordi come una questione squisitamente economica, dettata cioè da convenienza commerciale. Il processo distensivo riguardava nei primi anni Sessanta anche il quadro interno: è vero, il PC italiano era il più grande del mondo occidentale, ma Secchia era stato emarginato già nel ‘55, ed erano le togliattiane “riforme di struttura” ad avere esclusivo spazio nella politica del PCI; non solo, ma a questo processo revisionistico del comunismo italiano si sarebbe affiancata nel 1962 la svolta di centro-sinistra, con la rottura della vecchia alleanza frontista PCI – PSI, riequilibrata dalle prime riforme forse non “di struttura” ma comunque incisive, la fondazione dell'ENEL, la scuola media unica, l'introduzione della Cedolare contro l'evasione fiscale. E allora, in questo contesto, perché lo “scandalo” dei rapporti ENI-URSS? Perché gli attacchi per il vero o presunto filo-comunismo di Mattei solo a causa di una apertura commerciale con Mosca? Io una mia idea me la sono fatta: le accuse di filo-comunismo a Mattei nascondevano essenzialmente altro, o quanto meno non furono il vero motivo della guerra mediatica e politica contro di lui e l'ENI. Si potrebbe persino ipotizzare una sorta di calcolato debunking , quando si leggono gli articoli del primo biennio degli anni Sessanta del giornalista americano di origini ebraiche Sultzeberger contro Mattei. Il motivo dell'aggressione a Mattei – in Italia simboleggiata dagli articoli velenosi di Indro Montanelli dell'estate del 1962 – era altro, era la sua politica decisamente pro-araba, il suo sostegno attivo alle spinte più radicali e anti-israeliane del Medio Oriente di allora: Nasser, come ho già detto; e la guerriglia algerina che, come io ho fatto riscoprire ripubblicando nei miei saggi (e sul sito) una corrispondenza del Corriere della Sera del 1962 sugli attacchi del FLN alla comunità ebraica algerina, ebbe anch'essa un segno forte dal punto di vista della centrale “questione Israele”. Un aspetto come al solito occultato dalla storiografia sull'Algeria, e dallo stesso, peraltro avvincente, film di Pontecorvo su “La battaglia di Algeri”, dove di questo aspetto non c'è traccia. È la solita storia, che ho riassunto con una serie di esempi a tutto campo, nella mia lezione sulla Shoah: quando entra in gioco in qualche modo Israele e il suo mondo, scatta la censura e l'autocensura, è d'uopo tacere.


Sulla morte di Enrico Mattei si è discusso molto e tutti gli elementi di indagine ormai ci inducono a prendere atto di una realtà agghiacciante e terribile. Quel giorno l'esplosione fu causata da un ordigno posizionato all'interno del velivolo. Tra voci e sospetti, ancora non conosciamo con piena certezza i nomi degli esecutori materiali e, soprattutto, dei mandanti di quello sconvolgente attentato. Quanto e come l'autonomia dell'Eni stava disturbando l'egemonia delle cosiddette Sette Sorelle ?

Ormai, dopo l'inchiesta del PM Vincenzo Calia sulla morte di Mattei a Bascapé il 27 ottobre 1962, è ampiamente riconosciuto che il cosiddetto incidente fu in realtà un attentato, una bomba collegata al meccanismo di apertura del carrello in fase di atterraggio. Ma per quel che riguarda l'azione di disturbo dell'ENI e del suo Presidente, dubito che si debba continuare a sostenere la tesi di una centralità delle Sette Sorelle , o almeno di una centralità assoluta: nei fatti prima di morire, secondo opinione condivisa da molti studiosi, il lungo contenzioso con le compagnie anglo-americane era sul punto di risolversi. Mattei avrebbe dovuto recarsi negli Stati Uniti per questo obbiettivo – un accordo con la Exxon – e per incontrare Kennedy. L'accordo, dopo la sua morte, sarebbe stato in realtà sottoscritto da Cefis, il vice-presidente ma capo di fatto dell'ENI (il presidente era formalmente Marcello Boldrini), mentre altrettanto non avrebbe fatto lo stesso Cefis con un accordo con l'Algeria già pronto. Cefis era stato partigiano come Mattei, ma era profondamente diverso da lui, e già ai tempi della Resistenza si era legato ai servizi segreti inglesi. Aveva avuto contatti con Israele come presidente dell'ANIC, cosa che aveva fatto infuriare Mattei, che lo aveva espulso dall'ENI. Si è parlato poi di OAS, l'organizzazione terroristica francese che difendeva i coloni francesi in Algeria, mentre Mattei aiutava attivamente l'FLN e la sua guerriglia: ma in realtà la morte di Mattei è successiva all'indipendenza algerina, e in Francia De Gaulle aveva in mano la situazione. Per quel che mi riguarda, credo che si debba mettere al centro di tutta la vicenda Mattei e della sua morte la centralità dei suoi ottimi rapporti con il mondo arabo produttore di petrolio, in parte esigenza ineludibile in ragione della strategia di approvvigionamento energetico dell'ENI, in parte voluta, un fatto anche politico cioè. Mattei infatti, secondo una tradizione tipica della tendenza euro-mediterranea della DC, non esitò a stringere un'alleanza di ferro anche con le punte più radicali del mondo arabo, l'FLN appunto e Nasser. Anche Kennedy aveva contatti con Nasser, ma il rais egiziano era invece odiatissimo da Israele, che lo denunciava come l'“Hitler” del mondo arabo. Nell'archivio di Pomezia dell'ENI ho trovato carte molto interessanti su questo intreccio triangolare Mattei – Nasser – Israele. Alcune riguardano la guerra di Suez: gli israeliani avevano occupato già nel novembre del 1956 i campi italo-egiziani di Abu Rudeis nel Sinai, portandosi via macchinari e beni strumentali di grande valore. Quando si ritirarono e fu imposto il cessate il fuoco, iniziarono le trattative per la loro restituzione. Trattativa difficile, a causa dell'ostracismo dei rappresentanti di Tel Aviv che proponevano una cifra giudicata irrisoria dall'ENI. Mattei a un certo punto rompe la trattativa e come risulta da un appunto di un suo collaboratore, chiede di poter organizzare una campagna di stampa contro Israele – Il Giorno era stato fondato un anno prima – ma il sottosegretario agli esteri Folchi gli risponde che non era il caso e il tentativo finì lì. Un secondo gruppo di carte riguarda un periodo successivo, la seconda metà del 1961: in particolare c'è una lettera di Mattei indirizzata all'ambasciatore egiziano della RAU dopo che si erano diffuse sulla stampa araba voci di rapporti tra l'ENI e Israele, nella quale il presidente dell'ENI scrive, nero su bianco, che non solo l'ENI non aveva alcuna relazione con lo Stato ebraico, ma mai l'avrebbe avuta anche in futuro. In realtà era Cefis che intratteneva questi rapporti, come risultò da una inchiesta interna voluta da Mattei, del dicembre 1961. Un mese dopo Cefis lascia l'ENI, si parla di espulsione. Nell'estate successiva Montanelli pubblica sul Corriere della Sera una serie di articoli velenosi contro Mattei pieni di dati economici probabilmente fornitigli da una “gola profonda” della compagnia di Stato. A ottobre Mattei muore.


Ma tutto questo vuol dire che si può pensare a una presenza del Mossad nell'attentato a Mattei?

Fanfani, che era stato un avversario duro del fondatore dell'ENI, parlando ad un'assemblea di partigiani cattolici nel 1986, ebbe a dire che quello contro Mattei era stato probabilmente “il primo atto terroristico nel nostro paese”. Diciamo che l'ipotesi Mossad può essere sicuramente aggiunta alle altre per due motivi: la documentazione esistente, e un banale sillogismo. Mattei era alleato di Nasser e vedeva la sua strategia come inestricabilmente collegata al mondo arabo. Israele era in conflitto all'epoca con tutto il mondo arabo e in primis con Nasser. Ergo, Mattei era un oggettivo ostacolo per la politica di sicurezza dello Stato ebraico. Ma in queste storie di attentati epocali, si riescono solo a fare ipotesi. Stiamo ancora aspettando che ci dicano qualcosa di certo sull'attentato di Sarajevo.


Quanto rivive dell'Eni di allora nell'Eni di oggi, e, se ve ne sono, quali analogie sussistono tra lo scontro politico di quegli anni e le attuali contrapposizioni politiche in merito agli accordi energetici e strategici dell'Italia con la Russia, il Kazakistan e diverse altre nazioni in via di sviluppo, e, come e in che misura l'attuale crisi libica potrà incidere sulle strategie aziendali della compagnia guidata da Paolo Scaroni?

Il 17 marzo 2011, poche ore prima che il Consiglio di Sicurezza si riunisse per deliberare la no-fly-zone , il ministro del petrolio libico aveva assicurato continuità degli accordi con l'ENI. Questo episodio può essere preso ad esempio della non assurdità delle tesi per le quali l'attacco a Gheddafi è tutto sommato un attacco anche al governo Berlusconi. I tempi sono mutati, ma anche oggi esiste un oltranzismo occidentale negli Stati Uniti (non credo Obama), in Inghilterra e in Francia, che non gradisce né l'amicizia italo-russa – la Russia è l'erede geopolitico, per così dire, della vecchia URSS – né il South Stream in sostituzione del Nabucco , e né appunto i buoni rapporti italo-libici. In questo senso, con tutti i dovuti distinguo si è di fronte alla riedizione dello scenario dei tempi di Mattei, secondo consimili trend geopolitici. La propensione euro-mediterranea dell'Italia – di cui l'ENI di Scaroni è parte integrante – non nasce solo dalla testa dei politici o dei manager, ma è la proiezione diplomatica ed economico-commerciale di un'Italia collocata nel mezzo del Mediterraneo e prospiciente il Nord Africa ed il Medio Oriente. In fondo questa tendenza risale a molto prima di Mattei: di un ruolo mediterraneo dell'Italia parlò anche il Ministro degli Esteri Mancini negli anni Ottanta del XIX secolo. Allora e fino al fascismo incluso, si ragionava in termini di social-darwinismo , la pretesa cioè di esportare la “civiltà europea” nel mondo da colonizzare. Ecco dunque Mazzini con l'agognata annessione della Tunisia, poi la guerra giolittiana in Libia nel 1911, e poi la guerra di Mussolini ad Omar al Mukhtar, l'eroe dell'indipendenza libica impiccato dagli italiani nel 1931. Dopo la guerra, la stessa tendenza si ascrisse nel nuovo vento della decolonizzazione. Infine, nell'era post-bipolare, si riaffacciano i rischi di guerre più o meno motivate: fino ad ora il Maghreb sembrava escluso dagli scenari di guerra mediorientali, o solo lambito come nel caso dell'Egitto. Oggi però non sembra più così. Nella lunga durata della storia, Mattei è sicuramente attuale, ma nei fatti il suo messaggio di pace e cooperazione fraterna con i popoli del Medio Oriente, rischia di essere gettato alle ortiche.

di Andrea Fais
Tratto da: http://www.claudiomoffa.it/

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