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martedì 16 agosto 2011

Morire per il debito?

di Daniele Scalea*


Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, il socialista francese Marcel Deat si chiedeva se valesse la pena “morire per Danzica”. Parafrasando le sue parole, oggi gl’Italiani dovrebbero domandarsi se valga la pena “morire per il debito”. Perché la sorte che si profila per il nostro paese è tutt’altro che rosea. A meno di prendere scelte coraggiose che possono cambiare il corso della nostra storia…

Il recente attacco speculativo allo Stato ed alle banche italiane ha portato, per riprendere la formulazione ripetuta da molti commentatori, ad un commissariamento del nostro paese da parte di potentati esteri. La Banca Centrale Europea (BCE), d’accordo con USA, Francia e Germania, ha cominciato ad acquistare titoli di debito pubblico italiano sul mercato, ma chiedendo in cambio pesanti contropartite.

La “politica di risanamento” che la BCE pretende dall’Italia nasconde dei palesi secondi fini, e non potrebbe essere altrimenti vista la regia – neppure tanto occulta – di potenze estere nella vicenda. L’ormai famosa lettera di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi a Berlusconi è rivelatrice in tal senso. Il duo rappresentante della BCE avrebbe infatti indicato come misura prioritaria la privatizzazione del patrimonio pubblico italiano.

Ora, non esiste un singolo esempio storico in cui le privatizzazioni abbiano portato ad una significativa riduzione del debito d’uno Stato. Il caso italiano dei primi anni ’90 è significativo. Allora lo Stato procedette, tra le altre cose, alla dismissione di una mega-corporazione industriale-finanziaria, l’IRI: la settima maggiore società al mondo per fatturato, che a lungo era stata la più grande azienda al di fuori degli USA. Ebbene, l’erario incassò in totale 198.000 miliardi di lire, pari ad appena l’8% del debito pubblico (2.500.000 miliardi di lire). Se sollievo vi fu, fu di breve durata, perché oggi il debito pubblico italiano è di oltre 1.900 miliardi di euro, ossia quasi 3.700.000 miliardi di vecchie lire.

Mario Draghi dovrebbe conoscere bene questo caso, dal momento che all’epoca delle privatizzazioni degli anni ’90 era direttore generale del Tesoro e partecipò alla tristemente nota riunione sul panfilo “Britannia” di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Dovrebbe ricordarsi anche di come le privatizzazioni (che già erano cominciate negli anni ’80) abbiano portato, alfine, al declino industriale dell’Italia. Infatti, cosa rimane oggi di quell’Italia in cui la Olivetti produceva calcolatori elettronici (oggi noti come computer, proprio perché noi uscimmo anzitempo dal settore lasciandolo in mano agli anglosassoni) o in cui la Montedison era all’avanguardia nella sperimentazione degli organismi geneticamente modificati? Queste amare considerazioni potrebbero spingerci a farne d’ancora più aspre circa la scelta del governo Berlusconi di barattare con Sarkozy la Libia e la Parmalat pur d’avere il via libera francese alla nomina di Draghi a prossimo presidente della BCE: in tempi non sospetti notevamo che l’ex dirigente di Goldman Sachs appare più vicino alla finanza anglosassone che al sistema economico italiano.

Ma se le privatizzazioni sono inefficaci, perché Trichet e Draghi, ma anche le cosiddette “parti sociali” italiane (Confindustria e sindacati), pongono l’enfasi su di esse? Probabilmente perché rimangono oggi alcuni bocconi ghiotti, aziende solide ed in attivo come ENI, Finmeccanica e Poste Italiane. Aziende che sono però strategiche per lo Stato italiano, perché operative, rispettivamente, in settori come l’approvvigionamento energetico, la produzione d’armamenti, la banca e le comunicazioni.

Al di là della preoccupante prospettiva di perdere il controllo d’industrie strategiche, lasciando in futuro settori vitali dell’economia e della potenza italiana in mano altrui, la “politica di risanamento” impone altri pesanti oneri e sacrifici alla società: la finanziaria recentemente annunciata dal Governo ne è un chiaro esempio.

La logica, ancora una volta, è quella di spostare la ricchezza dai produttori agli speculatori, ossia dai cittadini lavoratori ed imprenditori alle banche ed ai giocatori di borsa, dal profitto e dai salari alla rendita. È la stessa logica insita nel quantitative easing perseguito negli USA, ma risponde ad una tendenza di più lungo periodo, quella della finanziarizzazione dell’economia occidentale, in cui per l’appunto la rendita e la speculazione hanno preso il sopravvento sull’economia reale e produttiva. Il professore Steve Keen, economista australiano, ha parlato del «più grande trasferimento di ricchezza della storia». L’economista statunitense Dean Baker ha scritto di una «massiccia redistribuzione del reddito agli azionisti ed agli alti dirigenti delle banche». Gli economisti Hossein Askari e Noureddine Krichene hanno affermato che «il potere d’acquisto è sottratto a lavoratori, pensionati e correntisti e donato a debitori e speculatori».

Non si tratta solo d’un problema di equità o iniquità, ma anche di efficienza e pragmatica. Gli stessi padri del liberismo, gli economisti politici classici dell’Inghilterra sette-ottocentesca, sottolineavano il ruolo negativo giocato dalla rendita nella crescita economica. Politiche che favoriscono la rendita sul profitto e sul salario, la speculazione sulle attività produttive, sono del resto cominciate ben prima della crisi del 2008, in parallelo con la finanziarizzazione (e deindustrializzazione) dell’economia occidentale.

Misure di “risanamento” che, per salvare speculatori e rentier, colpiscono i produttori, finiscono col dilapidare il capitale umano della nazione. Pensiamo ai tagli al sociale: un cittadino meno istruito e meno sano apporta minore beneficio alla nazione. Inoltre, il pericoloso sommarsi di riduzione dei servizi ed aumento della pressione fiscale genera malcontento, ed i recenti esempi dei paesi arabi, dell’Inghilterra e della Francia dovrebbero far suonare un campanello d’allarme. L’inasprirsi del conflitto sociale e l’esplodere di tumulti raramente è una buona notizia per un paese, quasi mai lo è per la sua economia.

Inoltre, la diminuzione della spesa pubblica può incidere negativamente, oltre che sui servizi, anche sugl’investimenti produttivi, come la costruzione di nuove infrastrutture. Non si vuol qui negare l’opportunità di ridurre la spesa pubblica, ma si contesta che, lungi dal puntare agli sprechi, si opti per tagli salomonici, e che le ristrettezze di bilancio siano dettate e commisurate agl’interessi da pagare ai rentier.

Il rischio è che, se tra qualche decennio l’Italia avrà interamente pagato il suo debito, l’avrà però fatto a costo dell’immobilismo e della stagnazione, ritrovandosi così retrocessa nel “secondo mondo”, o addirittura più indietro.

Alternative possibili ci sono, benché se ne parli di rado. Salvatore Cannavò è uno dei pochi giornalisti ad averne proposta una: ricorrere alla tesi del “debito illegittimo” dell’economista francese François Chesnais per disconoscere o rinegoziare una parte del debito, come fatto dall’Ecuador nel 2007. Nel 2005 l’Argentina fece di più, ristrutturando per intero il proprio debito: ossia rinegoziando gl’importi e gl’interessi coi creditori, di fronte all’oggettiva impossibilità di ripagarlo per intero. Si tratta di provvedimenti più moderati del puro e semplice “default sovrano” (ossia la bancarotta e la cancellazione tout court del debito), ma non meno efficaci.

Ristrutturare il debito non ha avuto che effetti benefici sui paesi che l’hanno fatto. L’Ecuador nel 2008 fece segnare una crescita record del PIL per il paese, pari al 6,5%, ed anche dopo il duro colpo della crisi mondiale oggi cresce d’oltre il 3% l’anno. Dal 2006 ad oggi il PIL pro capite del paese è cresciuto d’oltre il 70%, e la popolazione sotto la soglia di povertà è diminuita di quasi il 15%. In Argentina la crescita del PIL post-ristrutturazione si è assestata attorno al 9% e, dopo il rallentamento in coincidenza con la crisi mondiale, è tornata al 7,5%. Il reddito pro capite dal 2004 ad oggi è cresciuto di quasi un quinto. Dal 2004 al 2010 la popolazione sotto la soglia di povertà è passata dal 44,3% al 13,9%.

A titolo di raffronto, dal 2004 in Italia il reddito pro capite è aumentato solo del 10%, il PIL è cresciuto, quando è cresciuto, di poco più dell’1% all’anno. Nella Grecia catturata dalla spirale debitoria un quinto della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il reddito pro capite è in calo dal 2007, il PIL è sceso del 2% nel 2009 e del 4,5% nel 2010.

Alla luce di questi dati, non resta che da domandarsi: chi vuole imitare l’Italia? La Grecia e le sue ferali prestazioni economiche, oppure l’Argentina che, sgravatasi dal peso del debito pubblico, sta crescendo a ritmi “cinesi”?

* Daniele Scalea è segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e redattore della rivista “Eurasia”. È autore de La sfida totale (Roma 2010) e co-autore (con Pietro Longo) di Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario (Dublin-Roma 2011).


Tratto da: http://www.eurasia-rivista.org/morire-per-il-debito/10716/

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