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venerdì 21 settembre 2012

Guerra e debito, pilastri della politica di Washington

Da decenni l’economia degli Stati Uniti è di gran lunga la più indebitata del mondo. Nel settembre 2012 è stata superata la soglia dei 16.000 miliardi di debito federale, cifra superiore all’intero Prodotto Interno Lordo statunitense, mentre il saldo della bilancia dei pagamenti è regolarmente in negativo fin dagli anni ‘90. Nonostante la pesantissima posizione debitoria e malgrado la produzione nazionale sia nettamente inferiore rispetto alle importazioni, gli Stati Uniti riescono a far fronte alla più che allarmante situazione grazie al flusso costante di investimenti – sotto forma di acquisto di titoli di Stato, obbligazioni erogate da enti pubblici e aziende private, ecc. – provenienti dal resto del mondo. E’ questo afflusso di capitali stranieri a ciclo continuo a sorreggere l’altrimenti disastrosa economia statunitense che, grazie al ruolo centrale di cui è titolare il dollaro, riesce a mantenersi a galla alimentando la domanda internazionale della moneta americana sui mercati valutari e mantenendo contemporaneamente elevata la quotazione della divisa statunitense.
 
Tale posizione di privilegio di cui gode l’economia statunitense grazie alla funzione dominante del dollaro contribuisce in maniera fondamentale a limitare gli squilibri provocati dalla soverchiante tendenza al ribasso determinata dal fatto che gli Stati Uniti, per pagare le importazioni, iniettano sui mercati internazionali una quantità di massa valutaria nettamente superiore rispetto a quella richiesta dagli altri paesi interessati ad importare merci e servizi statunitensi.
La capacità di attrarre gli investimenti di cui sono dotati gli Stati Uniti non è dettata soltanto dalla prospettiva dei lauti profitti su cui si sorregge il sistema produttivo americano, ma è determinata soprattutto dal fatto che Washington è in grado di tutelare gli interessi del capitale proiettando la propria potenza militare su scala globale. Per questa ragione l’economia statunitense – di cui il complesso militar-industriale rappresenta l’architrave – è strettamente dipendente dalla guerra, di cui Washington può servirsi non solo per frenare l’ascesa delle varie potenze regionali che minacciano di intaccare lo strapotere nordamericano, ma anche per assumere il controllo diretto delle fondamentali aree geostrategiche del pianeta. Ogni qualvolta si presenti una potenza dotata della forza sufficiente ad insidiare il primato statunitense, Washington potrà sempre far affidamento sull’incommensurabile vantaggio militare di cui dispone allo scopo di puntellare la propria supremazia e riaffermare la credibilità degli Stati Uniti, in modo da incrementare l’afflusso di capitali destinati a finanziare il gigantesco deficit statunitense, anche se tale pratica è suscettibile di innescare un pericolosissimo ed inarrestabile avvitamento. «Il progressivo passaggio dell’America – scrive l’economista Joseph Halevi – a una posizione debitoria ha ridotto la credibilità internazionale del paese e spinge a un crescente ricorso all’esercizio dell’impero formale. Questo processo è circolare: tanto più si fa ricorso all’impero formale, tanto più cresce la spesa militare, tanto più peggiora la posizione netta sull’estero, tanto più crolla la credibilità internazionale»(1).

Il declino strategico degli Stati Uniti ha tuttavia restretto il ventaglio delle possibilità a disposizione di Washington, che non ha esitato a far ricorso a questa particolare arma soprattutto nei periodi di crisi, come quella che ha investito gli Stati Uniti verso la fine degli anni ’90. All’epoca, la conversione all’economia di mercato dei paesi ex sovietici assicurò una ripresa dei profitti alle imprese europee e statunitensi, che ebbero modo sia di conquistare nuovi mercati sia di delocalizzare la produzione sfruttando la massiccia offerta di manodopera a basso costo presente all’interno delle nuove repubbliche indipendenti. Ciononostante gli investimenti nei settori industriali e i tassi occupazionali proseguirono nel loro costante declino riflettendo la tendenza, da parte del capitale, all’accantonamento dei settori tradizionali in favore della speculazione nell’ambito del processo di finanziarizzazione generale – determinata dall’incapacità di suddetti settori tradizionali a valorizzare sufficientemente il capitale investito. Successivamente, la deflagrazione della bolla finanziaria che inchiodò il Giappone a un lungo periodo di stagnazione (che perdura ancora oggi), la crisi delle “tigri asiatiche” (Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Indonesia, Corea del Sud) e il dissesto russo causato dalla shock therapy prescritta dall’economista Jeffrey Sachs e somministrata dal presidente Boris El’cin provocarono un colossale afflusso di capitali a Wall Street, alimentando una gigantesca bolla speculativa legata ai titoli tecnologici. Nel 1999, l’indice Nasdaq registrò un aumento superiore all’85% per poi crollare fragorosamente nel marzo 2000, trascinando gran parte dei titoli tecnologici e producendo forti ripercussioni sul sistema produttivo statunitense. A circa un anno dall’esplosione della bolla della New Economy gli Stati Uniti entrarono ufficialmente in recessione, registrando il peggior andamento della produzione industriale dal 1960. I profitti delle 500 imprese dell’indice Standard & Poor’s segnarono invece un calo medio superiore al 50%, mentre i licenziamenti, soprattutto nei settori tecnologicamente avanzati, sfiorarono quota 800.000. Ciò produsse una rilevante flessione dei flussi di investimenti in entrata negli Stati Uniti, che passarono dal 35% al 28%, mentre quelli nell’Unione Europea salirono dal 56% al 61,5%. Emersero, in altre parole, dubbi relativi alla solidità degli Stati Uniti che determinarono un calo degli investimenti internazionali nell’economia nordamericana, provocando una diminuzione della capacità statunitense di finanziare il proprio disavanzo attraverso i capitali esteri. La contrazione del flusso di investimenti segnalava un pericoloso calo della competitività economica degli Stati Uniti nei confronti dei propri concorrenti, europei soprattutto.

Gli attentati dell’11 settembre 2001 irruppero clamorosamente nella situazione, fornendo all’amministrazione guidata dal presidente George W. Bush il pretesto perfetto per varare un piano a lunghissimo termine teso a rilanciare l’economia statunitense, modellato in base alle indicazioni contenute in un documento di analisi pubblicato la mattina dell’11 settembre 2001 dalla Morgan Stanley sul proprio sito, in cui si legge che: «Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane, e per questa via eliminare i rischi più significativi per l’economia degli Stati Uniti e per il dollaro? La risposta è un atto di guerra. L’ultima volta in cui gli USA hanno registrato un surplus delle partite correnti è stato nel 1991, quando il concorso dei paesi esteri ai costi sostenuti dall’America per la Guerra del Golfo ha contribuito a generare un avanzo di 3,7 milioni di dollari»(2). La Guerra del Golfo fu effettivamente condotta con grande dispiegamento di mezzi proprio allo scopo di porre fine al fenomeno recessivo manifestatosi nei mesi precedenti – che si concluse il mese successivo rispetto al termine del conflitto – e, come sottolinea la Morgan Stanley all’interno del documento, non a caso il 1991 fu l’ultimo anno in cui gli Stati Uniti poterono registrare un avanzo delle partite correnti, dopodiché l’indebitamento del paese verso il resto del mondo è andato costantemente irrobustendosi, facendo vacillare la posizione di privilegio occupata dal dollaro. Lo stesso New Deal varato dal presidente Franklin Delano Roosevelt diede i suoi frutti soltanto grazie all’entrata degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Malgrado l’implementazione di questo piano abbia provocato un aumento della spesa pubblica dai 10 miliardi di dollari del 1929 agli oltre 17 nel 1939, il Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti crollò ugualmente da 104 a 91 miliardi di dollari, con un parallelo incremento del tasso di disoccupazione dal 3 al 17%. Furono l’invasione della Polonia da parte della Wehrmacht e la successiva penetrazione delle truppe tedesche in territorio francese in seguito all’aggiramento della linea Maginot a ridisegnare completamente lo scenario. Con la vendita di armi a Gran Bretagna e Francia e con la successiva entrata nel conflitto, gli Stati Uniti ebbero modo di conseguire il molteplice risultato di stimolare la ripresa industriale (che aumentò del 50%), di incrementare il Prodotto Interno Lordo (che raddoppiò), di imprimere una forte spinta occupazionale al sistema economico (il tasso di disoccupazione crollò nell’arco di pochi mesi) e di acquisire una fortissima capacità d’influenza sulla politica europea. In altre parole, «Si può – scrisse l’economista Marcello De Cecco alla vigilia dell’aggressione statunitense all’Afghanistan –, e certamente sarà fatto, dar lavoro all’industria della difesa e spazio con grandi commesse statali, ma si tratta di un settore specializzato, che solo in parte coinvolge anche i produttori di beni civili, come le automobili. Se si trattasse di una grande mobilitazione bellica, tutti i settori industriali sarebbero coinvolti, e la General Motors produrrebbe navi, come ha fatto nella seconda guerra mondiale, o grandi missili, come durante la guerra fredda. Ma non stiamo parlando di questo tipo di mobilitazione, per fortuna dal punto di vista politico, ma sfortunatamente da quello economico»(3). Letta sotto quest’ottica la “guerra al terrorismo” dichiarata da George W. Bush e portata avanti da Barack Obama assume quindi un significato molto preciso, che porta l’economista Vladimiro Giacché a scrive che «A una mobilitazione bellica totale quale quella della Seconda Guerra Mondiale, estesa nello spazio ma limitata nel tempo, si sostituisce una guerra permanente, infinita nel tempo ma limitata nello spazio – limitata, cioè, agli obiettivi di volta in volta prescelti (l’Afghanistan, poi l’Iraq, poi la Siria, poi l’Iran…)»(4).

Ma il tentativo di procrastinare l’inevitabile tramonto della parassitaria egemonia statunitense – garantita (soprattutto) dalla potenza militare nordamericana e da un’economia internazionale incardinata sul dollaro – attraverso lo scatenamento della “guerra al terrorismo” è apparso quanto mai fallimentare. «Per mantenere il nostro strandard di vita – sostiene l’economista James Kenneth Galbraith – siamo divenuti dipendenti dalla disponibilità del resto del mondo ad accettare pagamenti in dollari in cambio di beni e servizi reali: il frutto del duro lavoro di gente assai più povera di noi in cambio di banconote che non necessitano di alcuno sforzo per essere fabbricate. Per decenni, il mondo occidentale ha tollerato questo “esorbitante privilegio” di un’economia imperniata sul dollaro come riserva mondiale perché gli Stati Uniti costituivano un baluardo capace di garantire la sicurezza dai rischi rappresentati dal comunismo e dalla rivolta sociale (…). Queste condizioni sono svanite (…) e la “guerra al terrorismo” non rappresenta un degno sostituto. Ciò che un tempo era considerato da molti come un baratto accettato a malincuore con la nazione egemone viene ora interpretato come il finanziamento ininterrotto ad uno Stato predatore»(5).

Gli Stati Uniti appaiono sempre più come uno Stato predatore anche a causa del deterioramento delle condizioni di vita dei cittadini nordamericani, a fronte del massiccio arricchimento dei colossi privati operanti nel settore della difesa. La perdita della centralità del settore industriale a favore del comparto finanziario nell’ambito dell’economia statunitense, la privatizzazione totale della difesa promossa da Washington e il vastissimo processo di delocalizzazione della produzione attuato dalle multinazionali statunitensi nel contesto della globalizzazione hanno infatti compromesso la classica spinta occupazionale connessa alla guerra.

Con lo scatenamento della “guerra infinita”, Lockheed Martin, Raytheon, Boeing, Northrop Grumman e General Dynamics (i cinque principali colossi militari) hanno registrato nel 2010 un fatturato complessivo pari a ben 386 miliardi di dollari, a fronte dei 217 miliardi del 2001 (con profitti che sono passati dai 6,7 miliardi di allora ai circa 25 del 2010), mentre i bilanci della difesa statunitense sono passati dai 316 miliardi annui del 2001 ai 708 del 2011. La spesa militare nel corso dell’amministrazione Bush è raddoppiata mentre durante quella di Barack Obama è aumentata dai 621 miliardi di dollari del 2008 agli oltre 711 del 2011. Al netto dell’inflazione (al valore costante del dollaro 2010), è cresciuta dell’80% dal 2001 al 2011. Il Pentagono usufruisce di un budget pressoché illimitato, che consente a Washington di assegnare ricche commesse alle grandi compagnie della difesa. Le operazioni militari collegate all’11 settembre 2001 hanno assorbito quasi 1.500 miliardi di dollari da sommare ai bilanci ordinari che hanno toccato quota 4.000 miliardi di dollari.
Tutto ciò ha naturalmente prodotto devastanti ripercussioni all’interno degli stessi Stati Uniti. Il Dipartimento dell’Agricoltura rivela che oltre 50 milioni di cittadini statunitensi – tra cui 17 milioni di bambini – vivono in condizioni di «Insicurezza alimentare»(6) a causa di mancanza di denaro o di altre risorse. Sotto l’amministrazione di George W. Bush (2001-2008), i cittadini statunitensi impossibilitati a sfamarsi adeguatamente e costretti a ricorrere ai food stamps (buoni cibo) e alle organizzazioni caritatevoli per sfuggire all’indigenza sono saliti da 33 a 49 milioni. Durante l’amministrazione Obama è stato sforato il tetto dei 50 milioni, equivalente al 16,4% della popolazione, rispetto al 12,2% del 2001. Di questi 49 milioni di cittadini, circa 17 vivono in condizioni di «Bassissima sicurezza alimentare»(7).

Nel lontano 1961 il presidente Dwight Eisenhower, conscio dei rischi che la nazione avrebbe corso assecondando gli interessi dell’apparato militare, pronunciò un celeberrimo discorso di addio in cui denunciava i pericoli connessi all’ascesa dalla lobby militare ed esortava il popolo americano a «Vigilare contro l’acquisizione di ingiustificata influenza, voluta o non richiesta, del complesso militar-industriale»(8). Ciò che Eisenhower si astenne dal rilevare fu tuttavia che il comparto militar-industriale costituisce il cuore pulsante dell’economia statunitense che, pur arricchendosi attraverso l’emanazione della “guerra infinita”, rappresenta la più solida garanzia della supremazia geopolitica statunitense. «Guerra e globalizzazione – osserva Michel Chossudovsky – avanzano di pari passo, e alle loro spalle troviamo schierati i poteri dell’establishment di Wall Street, i giganti petroliferi e i contrattisti anglo-americani della difesa. In sostanza, lo scopo della “nuova guerra americana” è estendere le frontiere del sistema del mercato globale, trasformare nazioni sovrane in territori aperti (o in “aree di libero scambio”), sia con mezzi militari sia con l’imposizione delle micidiali riforme del “libero mercato”»(9).


Note:
1. Cit. in Luciano Vasapollo, Il piano inclinato del capitale, Jaca Book , Milano 2003.
2. “Borsa & Finanza”, 15 settembre 2001.
3. “La Repubblica”, 5 ottobre 2001.
4. Alberto Burgio, Manlio Dinucci, Vladimiro Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Derive/Approdi, Roma 2005.
5. James K. Galbraith, Apocalypse not yet, www.tompaine.com/print/apocalypse-not-yet.php.
6. “Il Manifesto”, 11 settembre 2012.
7. Ibidem.
8. Dwight Eisenhower, Farewell Adress, http://www.h-net.org/~hst306/documents/indust.html.
9. Michel Chossudovsky, Guerra e globalizzazione. La verità dietro l’11 settembre e la nuova politica americana, Gruppo Abele, Torino 2002.


 

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